La storia di Abelardo e San Bernardo

Périgord è una località della Francia, situata nella regione dell’Aquitania. È famosa in tutto il mondo per le moltissime tracce rupestri e per le incisioni ritrovate in grotte che risalgono all’uomo di CroMagnon, un’antica forma “ascrivibile a popolazioni umane moderne” risalente al 30.000 a.C.

Il prologo del libro La mappa del destino di Glenn Cooper è ambientato esattamente lì, nella nota regione francese. Il libro parte con due giovani turisti che s’imbattono in un’enorme caverna. Siamo nel 1899. I due ragazzi fanno una scoperta straordinaria. Ai limiti dell’incredibile. Coscienti della gravità di ciò che hanno smascherato, si recano nel vicino villaggio di Ruac per avvisare le autorità. Ma commettono un’imprudenza. Si fermano in una locanda per bere qualcosa di caldo e, uno dei due, ancora sotto shock per la scoperta, si lascia sfuggire la descrizione delle immagini ritrovate nella grotta. Vengono uccisi a colpi di fucile.

Negli stessi luoghi, oggi, l’archeologo Simad resta affascinato dal complesso di grotte decorate con dipinti preistorici. La caverna più bella è la decima. Lì, vi sono raffigurati strani disegni: delle piante e un graffito rappresentante un bizzarro uomo-uccello. Soggetti alquanto insoliti. La scoperta è stata fatta grazie ad un manoscritto. Un antico libro del 1307 rinvenuto dopo che un incendio distrugge la biblioteca dell’abbazia benedettina di Ruac. L’autore è un monaco di nome Barthomieu che, nell’unica incisione in latino decifrabile, afferma di avere 220 anni. “Io, Barthomieu, monaco dell’abbazia di Ruac, ho duecentoventi anni. E questa è la mia storia”.

Qual è il legame tra il manoscritto e i graffiti rupestri? Cos’hanno scoperto i due turisti di tanto eccezionale da esser loro costato la vita? Perché nessuno deve svelare il segreto della decima stanza, un mistero di oltre 30.000 anni fa?

Pubblicato in Italia dall’editore Nord, il titolo originale è The Tenth Chamber. Questa è la quarta di copertina.

Per settecento anni è rimasto nascosto in un muro dell’abbazia. Poi una scintilla ha scatenato un incendio e il muro è crollato. Stupito, l’abate Menaud sfoglia quel volume impreziosito da disegni di animali e di piante. È scritto in codice, ma le prime parole sono in latino: Io, Barthomieu, monaco dell’abbazia di Ruac, ho duecentoventi anni. E questa è la mia storia.

Per migliaia di anni è rimasto immerso nell’oscurità.

Poi un’intuizione ha squarciato le tenebre.

Incredulo, l’archeologo Luc Simard cammina in quel grandioso complesso di caverne, interamente decorate con splendidi dipinti rupestri. E arriva all’ultima grotta, la più sorprendente, dove sono raffigurate alcune piante: le stesse riprodotte nell’enigmatico manoscritto medievale…

Per un tempo indefinibile è rimasto avvolto nel mistero. È stato custodito da santi e da assassini, è stato una fonte di vita e una ragione di morte.

Poi un imprevisto ha rischiato di svelarlo agli occhi del mondo.
Spietati, gli abitanti di Ruac non hanno dubbi: i forestieri devono essere fermati. Perché la cosa più importante è difendere il loro segreto. A ogni costo.

Dietro il terzo libro di Cooper (prima ci sono La biblioteca dei morti e Il libro delle anime) vi due storie, non una. Due. Entrambe riguardano due illustri personaggi. Il primo è Abelardo, il secondo è San Bernardo di Chiaravalle.

San Bernardo di Chiaravalle è proprio lui, quello della regola dei Templari. Una storia straordinaria, una vicenda che tutti conoscono già dai libri di scuola. Su questa, ci sarebbe molto altro da dire. Ma non è questo il posto giusto per farlo. Wikipedia, comunque, la riassume così: “Nel 1119 alcuni cavalieri, sotto la guida di Ugo di Payns, feudatario della Champagne e parente di Bernardo, fondarono un nuovo ordine monastico-militare, l’Ordine dei Cavalieri del Tempio, con sede in Gerusalemme, nella spianata ove sorgeva il Tempio ebraico; lo scopo dell’Ordine, posto sotto l’autorità del patriarca di Gerusalemme, era di vigilare sulle strade percorse dai pellegrini cristiani. L’Ordine ottenne nel concilio di Troyes del 1128 l’approvazione di papa Onorio II e sembra che la sua regola sia stata ispirata da Bernardo, il quale scrisse, verso il 1135, l’Elogio della nuova cavalleria (De laude novae militiae ad Milites Templi).

Abelardo, invece, è Pietro Abelardo, uno dei massimi filosofi del medioevo. Insegnante a Notre Dame, dal 1108 al 1118, racconta nella sua Historia, come gli allievi gli si affollassero intorno a lui da ogni parte d’Europa. Nel 1118, ricevette l’incarico di precettore della nipote Eloisa, orfana uscita dal monastero di Argenteuil. Se ne innamorò. E fu un amore travolgente. Sorpresi dallo zio di lei, però, furono costretti al matrimonio. E Abelardo, per vendetta, fu evirato. Eloisa, dopo aver partorito il figlio Astrolabio, fu costretta alla vita monastica.

Le due vicende, quella di Abelardo e San Bernardo, ad un certo punto, s’incrociano per il noto conflitto che si scatenò tra due intorno al 1140. In quell’anno Guglielmo di Saint-Thierry, cistercense, scrisse al vescovo di Chartres, Goffredo di Lèves e a Bernardo, e denunciò che due opere di Abelardo, Liber sententiarum e Theologia scholarium, contenevano, a suo giudizio, affermazioni teologicamente erronee. Le elencò in uno scritto: la Discussione contro Pietro Abelardo. Bernardo non lesse nemmeno i testi e scrisse ad Innocenzo II la nota Lettera 190, sostenendo che Abelardo concepisse la fede come una semplice opinione. Pronunciò così il sermone de La conversione, attaccando Abelardo e invitandolo ad abbandonare le sue lezioni. Abelardo si oppose, chiedendo all’arcivescovo di organizzare un pubblico confronto con Bernardo. Ma questi rifiutò, temendo l’abilità dialettica del suo controversista e presentò 19 affermazioni chiaramente eretiche, attribuendole ad Abelardo. Anche Abelardo rifiutò di difendersi, asserendo che si sarebbe appellato a Roma. Le proposizioni vennero condannate, ma Abelardo conservò la sua libertà.